Recensioni libri di montagna

Il pastore che amava i libri

Italo Zandonella Callegher

Il pastore che amava i libri


Il pastore che amava i libri Italo Zandonella Callegher è sceso a valle dal suo Comelico Superiore ed ha posto la “tenda” a Onigo, paese della Marca Trevigiana, ma le sue radici sono ancora lassù, nella sua valle nativa, dove si è sgranata la storia del suo ceppo familiare, fedeli i suoi avi a una terra amata, per quanto donasse i suoi magri frutti a costo di grandi fatiche, nel contesto di una economia ove: «l’odore del soldo era raro quanto quello della sazietà». Si considera, Italo, un “migrante interno”, a differenza di tanti conterranei che abitualmente andavano oltralpe, come suo padre Osvaldo, che grazie al lavoro di gelataio a Strasburgo mise da parte il gruzzolo sufficiente per rientrare in Comelico, acquistare prativo e del bosco e mettere su famiglia. La terra dei suoi avi l’ha piantata nel cuore, perché lassù a Dosoledo, a fronte del Popera, stanno gli anni che l’hanno formato alla vita, facendogli gustare con i suoi coetanei: «Giorni lieti, spensierati, poveri ma felici». Italo Zandonella Callegher può considerarsi persona meritatamente realizzata, che dalla vita ha avuto (per virtù proprie) quanto poteva prospettarsi: la serenità della famiglia, il successo nel lavoro, traguardi importanti in campo alpinistico (nell’Accademico e nel Cai), come autore e ricercatore. Ha investito i suoi vivaci talenti ideali e li ha visti ripagati. Lo si conosce e lo si apprezza inoltre per varie opere, di carattere alpinistico e divulgativo, come collaboratore poi di varie riviste di montagna. Ora ci offre il volume: Il pastore che amava i libri: storia del piccolo Ial, presentato, fresco fresco di stampa, al Trento Filmfestival. Sono pagine autobiografiche della sua infanzia, cronologicamente ancore vicine (sono in sostanza soltanto sessant’anni di stacco temporale) ma che ci rappresentano invece una realtà più lontana, diventata storia di una stagione di fatto scomparsa. Pagine che profumano di una infanzia felice, spensierata e creativa, dove la gioia era il prodotto di affetti familiari consolidati, di una educazione alla sobrietà e di un contatto continuo con la natura circostante, che la curiosità portava, giorno per giorno, a scoprire. Una infanzia: «totalmente libera fra mucche, pecore, fieno, patate e legna». È a Dosoledo che la vivacità e l’intelligenza portano il giovanissimo Italo a guardarsi attorno e a seguire il bisogno di scoprire le “terre incognite” che stanno oltre i confini del paese, oltre i boschi, abitualmente esplorati per la raccolta dei funghi, e oltre la prateria ove il dovere lo porta a pascolare le poche mucche di famiglia. Abitualmente con Beniamino, il figlio dei vicini di casa, ben più anziano di lui, buono ma nulla di più. Beniamino aveva la passione per la lettura, dai fumetti a Salgàri, e quando scopre che Italo tiene nello zainetto vari giornali (tra cui Il Vittorioso, cui l’aveva abbonato lo zio salesiano) gli propone un baratto. A casa aveva un volume che nulla gli diceva: Le Dolomiti orientali di Antonio Berti, Fratelli Fabbri editore, 1928. Bastò qualche fumetto, un numero sgualcito de Il Vittorioso e l’affare si concluse. Per un fanciullo pastore di sette anni fu l’invito a sognare e a esplorare. La prima fiammella di una passione che alimentata a dovere lo nutrì di cultura e lo portò a salire molte e molte montagne del mondo. Il pastore che amava i libri sviluppa la storia di una infanzia, tra i sette e i dodici anni, che potrebbe essere anche di altri, oggi in età media. Non per lettori più giovani, perché cresciuti in una società diversa, globalizzata dalla comunicazione e dai consumi, condizionata dai persuasori che con i loro messaggi, più o meno subliminali, uniformano oggi tutti, sia che si ritrovino in una valle alpina o in pianura, sia in una località del nord o del sud. Ma gli stessi confini non pongono argini, la globalizzazione deborda e toglie il sapore della genuinità. È quanto ci fa assaporare l’autore con le sue memorie di fanciullo, elaborate con struggente nostalgia. Ha sette anni quando con il cugino Gisi, che ne ha uno di più, con il pretesto di andare a funghi varca il bosco e arriva al Quaternà, il monte di 2500 metri che sta di fronte a casa sua. Il rientro a tarda sera è pure un’avventura. E l’anno dopo l’avventura si ripete con la “conquista” dell’Aiarnola, in solitaria, perché il cugino nell’ultimo tratto è preso da timore e recede. Più avanti negli anni studierà il Carducci e troverà citata la cima nell’ode al Cadore. E poi viene, alla boa dei dieci anni, il Passo della Sentinella che lo porterà a posare lo sguardo verso Sesto Pusteria e verso Cima Undici e il Paterno, gruppo che da alpinista vero esplorerà in lungo e in largo con il rigore dello storico, perché è lì il padre Osvaldo fu invalidato da pallottole sparate da Sepp Innerkofler, il 26 maggio 1915, a guerra appena iniziata. Sono pagine che fanno riaffiorare il Giamburrasca di Vamba perché ci fanno capire che “fino ad ieri”, cioè fino a quando la mente dei ragazzi non era monopolizzata dalla TV e da un marketing, che diabolicamente ha scoperto la potenziale fascia di consumo dei minori, i fanciulli, i ragazzi, gli adolescenti erano in grado di autogestirsi e di aprirsi al mondo mettendo la “fantasia al potere” e con la creatività delle loro avventure, vissute in quel giardino incantato che erano le piazze, i campanili e gli spazi ampi della natura. Ci sono pagine spassosissime nelle quali si narrano di birbate, come quelle del trafugamento delle slitte da legna, del gatto paracadutato sotto la spinta dell’ingegno leonardesco e della mucca imbiancata di calce e non più riconosciuta dal padrone sbronzo. Condita poi questa narrazione da verve spontanea, da arguzia finissima, che inducono al sorriso, venato da rammarico per un mondo che non c’è più e che purtroppo i giorni d’oggi non potranno far proprio. È venuto infatti a mancare il substrato di fantasia tolto dall’eccesso di benessere. Questa infanzia felice prende altra strada, sui dodici anni, quando Italo si troverà per gli studi a Milano in un Istituto salesiano. Una via che lo porterà ad essere un affermato dirigente industriale. Però pur trovandosi sulle strade del mondo, per ragioni di lavoro o di alpinismo, le sue radici resteranno a Dosoledo, oggi ancor più salde per il tabià restaurato, ove egli trova refrigerio per l’anima: «Durante i mesi migliori dell’anno, quando qui è più facile vivere ed è piacevole caricarsi di idee e di buoni sentimenti». Si è parlato di Italo, anche se è una storia narrata in terza persona, affidata a Ial, acronimo di Italo Antonio Luigi, battezzato come era stato con il nome del grande trasvolatore Balbo e con quelli del nonno paterno e materno. (recensione a cura di Giovanni Padovani). Il pastore che amava i libri. Storia del piccolo Ial, di Italo Zandonella Callegher, Edizioni Biblioteca dell’immagine, aprile 2012, pagg. 220, €. 13,50.
 
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