Recensioni libri di montagna

Giorni della Grande Pietra, l’alpinismo sul Gran Sasso e dintorni

Stefano Ardito

Giorni della Grande Pietra, l’alpinismo sul Gran Sasso e dintorni


Nei miei trent`anni di attività professionale a Roma, lontano dalle Alpi - Monte Rosa, Monte Bianco, Val Masino, Ortles...- dove mi ero fatto le ossa fin da ragazzo esordendo ovviamente dalle Grigne, devo dire che mi avvicinai con un certo pregiudizio alle montagne dell’Appennino centrale. Ci andai con amici romani, dapprima forse per non perdere l’allenamento in attesa di rituffarmi durante le ferie nelle predilette valli alpine. I monti Simbruini (Sub imbribus, la valle dell’Aniene, l’unica ricca d’acque), il Pizzo d’Eta, Velino e Sirente, il Lupone, il Capraro, la Serra di Celano, il Gennaro, il Semprevisa … e naturalmente il Gran Sasso; conosco tutto. Certo, sorgenti e ruscelli zero: fino quando non imparai a mie spese che dovevo partire con almeno due litri d’acqua al seguito, ricordo che il bisogno di liquidi raggiungeva limiti parossistici, anche salendo nei mesi di aprile o settembre. In una indimenticabile salita del Velino dai piani di Pezza sotto un sole mediterraneo, rischiai l’abbandono per disidratazione. Finché avvicinai l’Appennino nella veste invernale; e mi ricredetti completamente. Non tanto attraverso lo sci alpino, quanto per via del fondo, al quale mi dedicai da un certo punto in poi per motivi anagrafici. E allora nuove mete: Terminillo, Campofelice, Fossa di Paganica, Campo Imperatore … a Roma verso la metà degli anni ’80 i negozi di sport lanciarono una promozione per diffondere gli sci stretti, e ne profittai acquistando tutta l’attrezzatura per 100.000 lire. La neve mi aiutò ad amare l’Appennino centrale anche nella veste estiva, le sue rocce affioranti, le sue radure immerse nelle faggete secolari, le sue luminose sere stellate. Ma perché questa premessa? Per introdurre – se ce ne fosse bisogno – la figura di Stefano Ardito, che conobbi attraverso la collana “A piedi nel ….” da lui ideata per le edizioni ITER; collana che prese avvio dal Lazio per espandersi ad Abruzzo, Toscana, Lombardia e infine a tutto il territorio alpino nazionale. Guide maneggevoli che mi davano idee per vette e traversate, ma – con l’aggiunta di qualche intuizione da vecchia volpe – anche per lo scialpinismo. Ormai Ardito è una figura di spicco nel panorama della cultura alpinistica nazionale, e – come azzeccò la fortunata serie di cui sopra – da qualche tempo ha imboccato un filone molto accattivante mettendo la sua brillante e innovativa scrittura al servizio della storia dell’alpinismo. La sua è una storia discorsiva: evita il linguaggio da iniziati che ha tenuto per troppo tempo il nostro mondo lontano dai gusti del grande pubblico. C’è da sperare che – senza far ricorso al catastrofismo alla Krakauer – Ardito riesca a farsi leggere anche da chi ha poca dimestichezza con piccozza, corda e ramponi. Già abbiamo parlato di lui in GM 3/08 per Dolomiti giorni verticali e ancora in GM 2/2010 per Giorni di granito e di ghiaccio dedicato alle imprese sul Monte Bianco; ora Ardito ci ha preso gusto allo scandire dei giorni in quota e ci presenta, sempre per i tipi del vulcanico editore milanese Versante Sud, i Giorni della Grande Pietra che ha per protagonista principale sua maestà il Gran Sasso. E con questo l’autore ritorna alle sue origini romane; ci permetta di dire che lo si sente, perché lo scorrere del racconto rispetto alle opere precedenti si fa – se possibile – ancor più arioso e partecipato. Ci voleva un alpinista romano per scrivere finalmente un libro che rendesse al Gran Sasso l’onore che si merita; un gruppo montuoso di tutto rispetto, sfiorante i 3000 metri, tutto italiano, ricchissimo di vie e di visioni straordinarie ed uniche come si conviene ad una montagna che sta fra due mari. Una volta tanto, scoperta e salita da italiani; il primo nel 1573 fu Francesco De Marchi ingegnere militare bolognese al servizio dei Farnese, seguito nel 1794 da quell’Orazio Delfico teramano che, emulo di De Saussure, portò in vetta un armamentario di strumenti scientifici. Dovette arrivare il 1875 perché spuntasse il “solito” inglese; e chi poteva essere, se non Douglas Freshfield, l’uomo che – beato lui – dedicò la sua vita alle montagne del mondo, accompagnato da quella eccezionale guida che era François Devouassoud? Leggendo Ardito si ha la prova che intorno al Gran Sasso si è sviluppato nel tempo – soprattutto dalla fine dell’Ottocento in poi – un alpinismo tipicamente locale (romano ed abruzzese) che ha interessato anche le guide e i gruppi. Non si è avuta da quelle parti la competizione, classica delle valli alpine, fra le guide valdostane, valtellinesi o dolomitiche e i colleghi/rivali d’oltralpe; e nemmeno quella fra alpinisti di nazionalità diversa, che ebbe il suo apice nel Trentino. Pochissimi rifugi, itinerari tutti da scoprire, cartografia carente, disagevoli gli accessi anche a Novecento inoltrato. Con tutto ciò, il gruppo degli Aquilotti del Gran Sasso – costituitosi a Pietracamela nel 1925 – nacque ben prima degli Scoiattoli di Cortina e dei Ragni di Lecco; e scalatori di punta fra le due guerre come Enrico Iannetta, Bruno Marsilii e la guida Giovanni Acitelli fecero tutto da soli, senza potersi confrontare con chi arrampicava ben lontano da loro, nel Bianco o in Dolomiti. Le comparse di alpinisti di fama furono quasi tutte “mordi e fuggi”, come nel caso di Gino Soldà e Giusto Gervasutti; un po’ meno in quello di Aldo Bonacossa, che del gruppo fu un vero divulgatore, e vi portò la pratica dello scialpinismo. Anche nel secondo dopoguerra, quando – soprattutto per merito del gruppo della Sucai di Roma – il livello degli scalatori romani compì un decisivo salto di qualità arrivando a generare vari accademici, fu sempre il massiccio del Gran Sasso il campo d’azione dove furono compiute le più valide imprese. Ma torniamo allo stile narrativo di Ardito, che a mio parere costituisce il suo maggior merito. Si può dire che “umanizza” i protagonisti; in un tempo, come il nostro, di anti-eroi riesce a dar risalto alle scalate più ardite e ai loro autori facendo a meno della retorica del superuomo che ha segnato troppe volte la letteratura alpinistica. Procedendo per episodi, la sua storia del Gran Sasso – come già gli riuscì per le Dolomiti e per il Bianco – è una storia di uomini e donne scolpiti a tutto tondo; inseriti nel loro tempo, con incursioni nella aneddotica, nella vita privata, negli interessi extra-alpini, nelle chiacchierate personali. E dietro a tutto questo, si percepisce un lavoro di scavo e ricerca davvero imponente. (recensione a cura di Lorenzo Revojera) Giorni della Grande Pietra: l’alpinismo sul Gran Sasso e dintorni, di Stefano Ardito, Edizioni Versante Sud 2010, pagine 283 con illustrazioni
 
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