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Flavio Favero
La valle del ritorno
Come sarà il nostro futuro? Soltanto una cinquantina di anni fa Carlo Levi poteva tranquillamente assicurare che il futuro ha un cuore antico, ma chi oggi si sentirebbe di fare propria questa tranquillizzante affermazione? Chi può rispondere se l’iniziato nuovo millennio sarà migliore o peggiore del precedente? Sicuramente sarà diverso per molti aspetti. Basti pensare allo sviluppo dell’informatica e della telematica, alle applicazioni della tecnologia, alle ricerche nel campo della biologia molecolare per intuire quali enormi prospettive si aprono di fronte all’uomo che, permeato di razionalismo tecnologico, vede aumentare i propri poteri con un’ incredibile accelerazione in avanti rispetto alle corrispettive responsabilità. Questo scenario è caratterizzato da una società che il sociologo Zygmunt Bauman definisce «liquido-moderna» perché le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. «Questa società, pertanto,- conclude - non è in grado di conservare la propria forma e di tenersi in rotta a lungo». Alla ricerca di una qualche risposta filosofi e scienziati sono apparsi in difficoltà; appaiono più profetici gli artisti e i letterati. Questa operazione è riuscita all’ingegnere elettronico Flavio Favero, uno scrittore a titolo pieno, che con questo romanzo affronta un labirintico universo in cui due mondi coesistenti finiscono di trovare un punto di congiunzione che è la risposta cercata ai nostri inquietanti interrogativi. Il romanzo ha un impianto proprio e una grande sceneggiatura che rapisce e trascina letteralmente il lettore su due corsie diverse fino all’attesa rivelazione finale, rimasta magicamente nascosta come avviene nella migliore letteratura gialla o di fantascienza. Al di là della trama, che non va raccontata, ne viene fuori una mappa del futuro frastagliata e problematica in cui, se predominano gli elementi di fondata inquietudine, emerge comunque la certezza che oggi l’uomo più di ieri è faber fortunae suae. L’opera di Favero risponde a un’altra domanda se, cioè, è possibile scrivere di montagna evitando biografie, racconti di imprese più o meno disperate, diari di viaggio. A questo quesito rispondevo a un convegno del G.I.S.M. che era possibile considerando la montagna come ambiente e sfondo di vicende che tutto sommato avrebbero potuto svolgersi anche in altre ambientazioni. È quello che ha fatto l’autore descrivendo una montagna che è condizione di vita, paesaggio, simbolo e metafora, ma con tale affascinante e selvatica veridicità da darne una raffigurazione di alto livello facendone un elemento primario della pagina scritta, anche se non perde sicuramente di livello quando dimostra di sapere esplorare con uguale profondità il cuore umano. Alessandro Gogna nella bella presentazione parla di «belle figurazioni poetiche che trovano riscontro nella nostra esperienza di appassionati di montagna e di sensibili amatori del fantastico » e di «un grande finale». Non possiamo che consentire e concludere che l’arte non è la figlia dell’ideologia e dello sviluppo tecnologico, ma consapevole o meno, è un’emanazione dell’etica e che sono proprio i valori morali la fonte che l’autore individua per la salvezza dell’uomo e del nostro mondo con uno stile che rilancia il libro di montagna come una delle più affascinanti coinvolgenti e poetiche saghe che siano mai state vissute e raccontate. Come un romanzo, appunto. (a cur di Dante Colli) La valle del ritorno, di Flavio Favero. Luca Visentini editore, novembre 2007, pagine 200, cm 13x21